Difficile poter etichettare la pittura di Giovanni Boldini, che era in grado di dipingere in ogni modo come voleva quando voleva. Fu protagonista in prima persona e interprete della “belle epoque”.
]]>Un giovane e tanto piccolo quanto vivace ragazzo che, appassionato di pittura, trasformò il granaio di famiglia nel suo atelier: Giovanni Boldini.
Il padre Antonio era uno stimato pittore “purista”, con l’indubbio merito di essere stato un eccellente maestro per suo figlio.
Già dotato di un naturale talento, gli insegnamenti del padre gli donarono una padronanza tecnica e una scioltezza fuori dall'ordinario.
Dobbiamo dire che il carattere di Zanin riusciva a trasformare tutto in positivo, un po’ come Gastone, il personaggio molto fortunato nei fumetti di Topolino.
La statura che per molti poteva rappresentare un problema e un cruccio per Giovanni Boldini fu una fortuna, perché alto soltanto m 1,54 era 1 cm meno di quanto richiesto per subire l'arruolamento militare, e così lo evitò dedicandosi pienamente alla pittura.
Per il talentuoso e irrequieto Giovanni, Ferrara e poi Firenze erano come un abito stretto, perché era Parigi il centro del mondo artistico.
Il problema è risolto dallo zio Luigi che, morendo senza eredi diretti, lascia a Giovanni Boldini una cospicua eredità, permettendogli di vivere e viaggiare senza difficoltà.
Il suo stile originale e la sua perizia tecnica gli consentirono di salire sulla giostra parigina, dividendo il suo tempo tra ritrattistica, frequentazioni mondane, belle donne e viaggi.
Difficile poter etichettare la pittura di Giovanni Boldini, che era in grado di dipingere in ogni modo come voleva quando voleva. Fu protagonista in prima persona e interprete della “belle epoque”.
Le sue figure belle, eleganti, slanciate, vivaci possono ben rappresentare l’animo di Zanin il piccolo, grande e fortunato pittore.
Andrea Giuseppe Fadini
]]>Sono 52 opere che il Museo Marmottan Monet di Parigi ha prestato e che rappresenta una delle più nutrite raccolte al mondo del maestro dell’impressionismo.
]]>Sono 52 opere che il Museo Marmottan Monet di Parigi ha prestato e che rappresenta una delle più nutrite raccolte al mondo del maestro dell’impressionismo.
Alla fine del percorso, che offre anche degli ambienti multimediali immersivi coinvolgenti, c’è il bookshop.
In questo contesto la mostra si conclude con la possibilità di vedere le stampe Pitteikon su carta a mano di Amalfi.
Trovate la stampa Pitteikon di uno dei quadri più belli della mostra: “Le rose”.
I visitatori hanno dimostrato di apprezzare molto le stampe Pitteikon, così diverse dal solito, esaurendo tutte le copie disponibili in soli 3 giorni.
Con piacere abbiamo rifornito il bookshop, dove potete così vedere la nostra creazione, anche incorniciata, acquistarla oppure ordinarla direttamente sul nostro sito cliccando qui per essere consegnata a casa vostra.
]]>Turner, per esempio, viaggiò moltissimo mentre John Constable non si mosse mai dall’Inghilterra.
11 giugno 1776 e il 1816
Constable nasce l’11 giugno del 1776 e nel 1816 dipinge questo meraviglioso olio su tela: Wivenhoe Park.
Scopriamo 3 importanti curiosità su questo quadro.
1 – Constable vuole essere un “pittore naturale”
Molto prima degli impressionisti (Monet nascerà 24 anni dopo) ha creato questo quadro quasi interamente all’aperto, anticipando di decenni il famoso “plein air” di Monet e compagni.
2 – Equilibrio e composizione da cucire
Al centro della composizione si vede un maniero in mattoni rossi. John si rende conto che non riesce a comprendere anche il fienile dei cervi col tetto in paglia.
Allora, con un abilissimo lavoro, John aggiunge quasi 3 centimetri di tela sul lato destro (per chi guarda). Per ripristinare equilibrio e simmetria del quadro, John, cuce una striscia uguale anche sul lato sinistro e, come elemento dipinge la figlia dei proprietari, Mary Rebow alla guida di un carro trainato da un asino.
3 – E ora posso sposarmi
Grazie a questo quadro commissionato dal proprietario del parco maggiore generale Francis Slater-Rebow, caro amico del padre di John e primo fra i suoi mecenati e sostenitori, Constable guadagnò abbastanza soldi per poter finalmente sposare il suo amore di lunga data: Mary Bicknell
Diceva Constable: “Non vediamo veramente nessuna cosa finché non la capiamo”,
Conoscere, capire e circondarsi di immagini frutto di studio, tecnica e sapienza è fondamentale per vivere meglio e circondarsi di bellezza.
A. G. Fadini
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Uno dei criteri principali per smascherare un quadro falso è quello di analizzare lo stile della pittura.
Si possono trovare e simulare i colori, la tela, le tinte in modo praticamente indistinguibile da un originale, ma lo stile è difficilmente ripetibile.
Il tocco, la pennellata, il gesto, soprattutto nei quadri moderni, resta personale. Come fosse un’impronta digitale.
Lo stile di van Gogh
E di stile, di impronta personale, abbiamo l’occasione di parlare osservando un quadro di Vincent van Gogh: “Il riposo dopo la mietitura” (o “La siesta”, alla messicana, in altre fonti).
In questo quadro, e non è il solo, van Gogh ha “copiato” il soggetto da un altro pittore che considerava il suo “maestro” e sua continua fonte di ispirazione: Jean-François Millet.
Sappiamo che Vincent aveva tentato la via della predicazione, si sentiva vicino a tutte quelle persone per cui il lavoro è dura pratica quotidiana e spesso nemmeno porta fuori dalla miseria. Fallita questa idea, così come quella di assistente di un mercante d’arte, portò questa attenzione nella pittura quando, a trent’anni, decise che fare l’artista sarebbe stata la sua unica strada.
Ammiratore di Millet
Non poteva, quindi, non essere attratto dalla pittura del contadino Millet che, per motivi simili, si dedicava a questi soggetti volendo dare a essi pari dignità con altri temi pittorici.
Spesso, dunque, van Gogh si ispirava ai quadri di Millet, anzi… li copiava proprio.
In questo caso van Gogh si trovò davanti a un prototipo per incisione e l’immagine è speculare, rovesciata.
Vincent riprende esattamente la scena dipinta da Millet nei minimi particolari: la posizione della coppia sdraiata, dimensione e spazi dei covoni di grano, il carro in fondo, persino i due falcetti appoggiati lì a fianco.
Ma dove in Millet i colori e le pennellate sono tenui, sfumate per ispirare un senso epico e religioso della scena, attraverso van Gogh la vita esplode.
I colori di Vincent
Van Gogh è già a Saint Remy, in ospedale, in un mese invernale, ma i colori sono estate pura. Il giallo illumina tutto il quadro e il colore degli abiti è sostituito con il celeste e l’azzurro complementare. I visi e ciò che in Millet è rosa per avvicinarsi alla realtà in Vincent diventano un verdino tenue, per restare in tema con l’unità cromatica di tutto il quadro.
E il cielo? Non può essere quel grigio rosato tenue, molto probabile nella realtà dei fatti: per Vincent il cielo è blu. Un bel blu uniforme a contrasto e complemento del giallo sole.
Il delicato quadro di Millet, pervaso dal sentimento misurato e razionale della sua poetica, nelle mani del genio olandese diventa emozione pura, incontenibile e coinvolgente.
Perché Vincent van Gogh non ha altri posti dove esistere: immerso nella vita pura che riempie anche i suoi inimitabili quadri.
Per chi lo desidera c’è il filmato sul canale YouTube @pitteikon.
Andrea Giuseppe Fadini
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Gli artisti “moderni” sono sempre stati affascinati dai bambini.
Per moderni intendiamo quelli dei primi del novecento come Picasso, che disse che a dodici anni dipingeva come Raffaello (ognuno si illude come può) e che impiegò poi una vita a dipingere come un bambino.
In realtà, queste considerazioni sono un mito. I bambini funzionano diversamente.
Prendiamo un bambino di 4 o 5 anni e facciamogli guardare un quadro, per esempio la casa girevole di Paul Klee.
Lo guarderà con attenzione e rimarrà estasiato dai colori, dalle forme e dalle possibilità che questo quadro gli offre.
Bastano pochi anni, due o tre, e lo stesso bambino rifiuterà decisamente un quadro simile: “No! Le case non si disegnano così, è tutto fuori posto, è un pasticcio”.
Non sarà molto diverso dal giudizio di moltissime persone adulte, che hanno questa idea dell’arte astratta.
Cosa è cambiato in così poco tempo e che ci può aiutare a capire un’opera di Klee?
I bambini imparano i principi di “non contraddizione”.
Per un bambino più piccolo, per esempio, un pennarello non è solo un pennarello; può metterselo in bocca e diventa biberon oppure, ben impugnato, un’arma da offesa e se gli macchia le mani…meraviglia!! “Le mie mani cambiano colore… ma sono sempre le mie?”
È un tratto tipico della follia, in cui inevitabilmente si trovano i bambini.
Più tardi, si impara che il pennarello è un pennarello e niente altro. A forza di “no” e “no”, diffusi a piena voce dalle mamme, si acquista mano a mano la ragione e si impara ad attribuire il significato univoco delle cose.
Senza bisogno di ritornare alla follia possiamo, però, seguendo una possibilità che Paul Klee ci offre, stupire e godere della bellezza dei significati multipli.
Proviamo con la casa girevole.
Possiamo visitare la casa da tutti i lati senza muoverci, perché Paul ci ha detto che è girevole… è lei che si muove.
Al centro c’è la casa, col suo tetto spiovente: è così che sono le case nella nostra mente.
I colori sono caldi perché a casa mia si sta al caldo.
La mia è anche una casa luminosa e dalle finestre entra una bella luce bianca. Ho diversi tipi di finestra, anche un bel finestrone con la cima rotonda.
Per arrivarci si passa da un vialetto e c’è anche una scala a gradini.
Ogni casa che si rispetti ha il suo alberello vicino.
Intorno il colore si scurisce, e non si vede bene, anche perché non m’interessa. Quello che importa è la mia casa, che è anche girevole.
Paul Klee non voleva dipingere come i bambini, era molto lento e meticoloso, preciso quasi all’eccesso, ma dipingeva dando ai segni la possibilità di essere una cosa, ma anche altro. Avere un significato, ma anche quello che dobbiamo andare a scoprire dentro noi, usando gli occhi del sentimento oltre a quelli della razionalità.
Andrea Giuseppe Fadini
]]>Monet era appena ritornato da un viaggio in Inghilterra e si trasferì ad Argenteuil, un villaggio sulla Senna alla periferia di Parigi.
]]>Quando Claude Monet dipinse questo capolavoro aveva 33 anni ed era il 1873, un anno prima della famosa mostra degli impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar.
Monet era appena ritornato da un viaggio in Inghilterra e si trasferì ad Argenteuil, un villaggio sulla Senna alla periferia di Parigi.
Un luogo luminoso che piacque molto agli impressionisti e dove dipinsero molti quadri.
Un campo di papaveri è molto suggestivo e spinge un pittore a soluzioni semplici, giocando sull’effetto dei tocchi rossi su un fondo verde prato.
Ma Monet non ha mai scelto la soluzione più facile, ma quella giusta e reale.
La magia di una passeggiata tra i campi, questo voleva trasmettere.
Com’è sua abitudine riporta, senza disegno, ma solo a tocchi e zone di colore, il paesaggio. Rende magistralmente l’atmosfera un po’ calda, grazie ai colori pastello e alle nuvole bianche che lasciano poco spazio al cielo.
Due figure in alto a sinistra indicano che lì c’è un sentiero, una strada. Ma sua moglie e suo figlio Jean si sono immersi nel prato.
A sinistra in pendio, sul fianco dell’argine, i papaveri e, sulla destra, il campo. I colori sono tenui, la tavolozza che ha scelto Monet oggi non è a toni brillanti, perché avrebbe tolto realismo al quadro. Usando i toni pastello, ma con colori a olio, è riuscito a portarci lì, al suo fianco, immersi anche noi nel campo di papaveri.
Fra pochi passi ci raggiungerà sua moglie e il piccolo Jean.
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Per chi lavora con il “gradimento” del pubblico, potere, politica e commercio e perciò anche parzialmente per l’arte, si sono aperti nuovi orizzonti.
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Continuo il ragionamento iniziato in un post precedente, “Un’immagine ci seppellirà”, sugli effetti di questa nuova realtà che ci sommerge di immagini. Chi non l’ha letto lo trova qui.
Insieme all’indigestione di immagini, internet ha portato con sé nuovi funzionamenti possibili dei rapporti sociali.
Per chi lavora con il “gradimento” del pubblico, potere, politica e commercio e perciò anche parzialmente per l’arte, si sono aperti nuovi orizzonti.
Peccato che gli operatori artistici non se ne siano ancora accorti, però la speranza, com’è noto, muore per ultima.
Il politico, il commerciante ecc. possono farsi un’idea precisa di ciò che il pubblico gradisce e regolarsi di conseguenza. I costi non sono da poco, ma sempre meno delle ormai antiche “indagini di mercato” e dei “sondaggi” e sono molto più affidabili.
I politici in primis, coi soldi nostri, non hanno perso l’occasione e infatti oggi il politico non dice ciò che ritiene giusto o espone un’azione di governo necessaria, ma dice solo quello che la gente vuol sentirsi dire.
Non solo.
In parte puoi orientare il gusto e le opinioni, lavorando sia sui social, sia sui media e i motori di ricerca. Così, le persone che vogliono farsi un’opinione in internet si faranno l’opinione che voglio io e il gioco è fatto a metà.
Torniamo all’arte.
Come posso adoperare a mio vantaggio un sistema del genere?
Facciamo un esempio i cui riferimenti sono puramente voluti e reali.
Un artista, prima di tutto, deve avere un’immagine “mitica”. Lo sapevano bene sin dai tempi di Mark Twain che scrisse la gustosissima commedia “Le avventure di un artista defunto”, dove un artista si finge defunto e le sue vendite e gradimento da zero passano al grande successo.
Così si crea un nome, ma l’artista non compare mai. C’è ma non si vede. Tipo Mina o l’ultimo Battisti. Non si sa nemmeno se è uno o un gruppo anziché un artista singolo.
Predisposto l’artista misterioso, scegliamo un tipo di arte “popolare”, perché il quadro è già un interesse di livello medio alto.
Graffitaro. Sa di giovane, di protesta, di estraneo ai circuiti dell’arte, sa di disobbediente. Il problema dell’impossibilità di spostare un muro, per esporlo qui e là, viene brillantemente risolto con foto e stampe che, attraverso i social e i media on-line, sono perfettamente compatibili.
Ora pensiamo al messaggio, ovvero alla poetica dell’artista.
Per i contenuti non c’è problema: basta dire ciò che la gente vuol sentirsi dire, qualcosa su cui è quasi impossibile non essere d’accordo.
No alla guerra, si all’amore e alla fratellanza, proteggiamo e diamo spazio all’infanzia, e così via. Recentemente un bel tributo alle infermiere: sono loro i veri eroi. E chi può dire il contrario?
Lo stile?
Fotografie elaborate a stencil (tipo il ritratto di Che Guevara sulle magliette, per intenderci), veloci da riportare sui muri di cui si ottiene una preventiva approvazione. (Va bene essere disobbediente, ma per finta, sennò mi cancellano il lavoro e mi si complica la vita)
Resta un ultimo passo.
Avere lo “status” di arte. E questo lo può rilasciare solo il ristretto circuito dei collezionisti ricchissimi (e oggi abbastanza ignoranti, come dice il critico d’arte Marco Meneguzzi in un suo gustoso libro), dei musei, dei critici a tassametro e alcune gallerie Vip.
Bene, nei musei esponiamo le stampe fotocopia dei vari soggetti. Organizziamo ogni volta un furto o tentativo di furto e l’attenzione dei media è assicurata.
Possiamo anche vendere all’asta una copia di uno dei soggetti e autodistruggerlo … a metà, sennò si creano problemi di incasso.
Nulla di nuovo intendiamoci, anche Jean Tinguely negli anni ‘60 creava macchine che si autodistruggevano con il fuoco, ma lui lo faceva sul serio. E i pezzetti rimasti erano regalati al pubblico come souvenir. Coerenza di altri tempi.
Non deve mancare anche un bel nome, facile, comodo da ricordare sulla falsariga dei “brand” aziendali. Tipo “Banksy”. Sì, direi che è perfetto.
Ecco illustrato in breve come fare arte in questo momento storico e usare a proprio vantaggio strumenti che per altri costituiscono un problema.
Naturalmente l’obiettivo principale è il reddito, perché la ricerca o il messaggio “artistico” è tutt’altra cosa.
Considerazioni finali del mio ragionamento li riservo a un mio prossimo post, visto che ho già scritto il doppio di quanto consigliato dai “guru” del web.
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D’altra parte, prevedere fenomeni del futuro è impossibile e chi ci ha provato ha raccolto figuracce memorabili.
Parliamo di persone ritenute il massimo dell’intelligenza.
Einstein nel 1932 affermò: “Non c’è la minima possibilità di sviluppare energia atomica”, mentre nel 1981 Bill Gates assicurava che computer da 640K sarebbero stati sufficienti per chiunque (oggi 640k non bastano nemmeno per conservare una foto molto piccola).
E gli esempi sono davvero tanti e memorabili.
Tornando alle immagini, referenziati studiosi hanno calcolato quante immagini create dall’uomo, cioè quadri, disegni, affreschi e dal 1850 in poi fotografie, possa aver visto un uomo del passato rispetto a noi oggi.
Ovviamente, i risultati sono tutti molto referenziati e molto diversi.
Per il ragionamento che stiamo svolgendo possiamo fare da noi.
Prendiamo un uomo del 1700 non particolarmente ricco. La sua vita si limitava alla città natìa e aggiungiamo qualche viaggio o pellegrinaggio in città, tanto per esagerare.
Tre o quattro chiese (in nord Europa spoglie, quindi niente immagini) un municipio o visita a casa di ricchi: il totale di immagini, che poi possiamo parlare solo di quadri e affreschi, raggiunge a fatica il numero cento.
Cento immagini in una vita intera.
In quanti minuti facciamo passare cento immagini su Instagram o su Facebook?
E non ho voluto inserire cinema e televisione per non complicarmi la vita in calcoli matematici, ma il concetto è comunque chiaro: un’enormità di immagini affolla le nostre menti.
Da un’esistenza da cento immagini a vita a una da milioni di immagini a vita.
Una seconda rivoluzione per immagini, diciamo così, ha due attori ben precisi: internet e smartphone.
La rete a cui tutti abbiamo accesso ci permette di vedere e trovare quasi tutto. Quasi perché immagini e contenuti drammaticamente significativi ci sono vietati, non li troviamo. Provate a cercare “siria guerra” e capirete al volo ciò che intendo.
Profusione di macerie, fumi, luci, qualche bambino vivo che piange, soldati, ma mancano le immagini del significato principale della guerra per la povera gente: la morte.
Per l’utente normale è impossibile trovare immagini che rappresentino “il vero” di una guerra che, purtroppo, non sono solo le macerie.
La “censura” o “auto-censura” funziona benissimo.
Precisiamo: non sto parlando di foto che mostrino solo cadaveri, ma immagini che “raccontino” la realtà di questa guerra. Dove sono i campi di concentramento? Dov’è la miseria? Dove sono i racconti per immagini dei bombardamenti che hanno creato quelle macerie?
Rimosse.
Non vorrebbero mai che ci formassimo un’idea sbagliata dell’esportazione di democrazia.
Il secondo “attore” di questa rivoluzione è il telefonino, che oggi è una macchina fotografica.
Oggi siamo tutti fotografi.
Così come l’invenzione della fotografia ha stravolto (per molti ucciso) la pittura, così la diffusione capillare della fotografia, immediatamente pubblicata e diffusa in ogni dove, ha stravolto (e forse ucciso) la fotografia stessa.
Un esempio?
Da studente di fotografia il docente vi invita a fare una bella foto di un tramonto. Vi munite di una bella macchina fotografica digitale (se costa meno di 10.000 euro ha meno pixel di alcuni smartphone da 600 euro) e di obiettivi vari, vi scegliete un posto suggestivo e aspettate il calar del sole.
Intanto che aspettate fate come Penelope Umbrico.
Cercate “tramonto” su Flickr. In una sola lingua e in una sola piattaforma di ricerca (Flickr) vi compariranno più di 30 milioni di foto.
Potete dividerle per colore dominante, orientamento, località, data, ora e formato.
Se pensate che scattare la 300 milionesima foto (non ho sbagliato di uno zero, ho aggiunto altre lingue alla ricerca per difetto) abbia un senso, aspettate il tramonto e fate click, altrimenti tornate a casa e cercate con attenzione: magari la foto che volevate scattare c’è già.
Penelope Umbrico ha scelto di tornare a casa e raccogliere le foto a suo gusto e farne dei collage. Non ha fatto nemmeno un click. Mostre, installazioni e persino un bel libro con 100 foto (non sue) a 50 euro.
Penelope sa benissimo che la sua riflessione concettuale a critica di questa realtà ha avuto il risultato di aggiungere altre foto-collage di tramonto ai milioni di tramonti esistenti.
Ora in flickr c’è anche lei. E senza aver fatto nemmeno una foto.
Una realtà di questo genere pone degli interrogativi fondamentali per tutti coloro che fanno arte, producono immagini e comunque vivono in questo tempo.
Crea nuovi criteri e nuove necessità ”ecologiche”.
Chiudo qui questo post (altrimenti mi diventa un libro) e proseguirò i miei ragionamenti sulle immagini in altri post a seguire.
Intanto, prima di farvi un selfie, consultate internet.
Magari qualche telecamera di sorveglianza vi ha già immortalato, proprio come volevate voi, e potete risparmiare un click anche voi.
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Non fu così in altri paesi. Un po’ in tutto il mondo, a fasi alterne, le religioni e il potere di turno, l’arte proprio non la potevano sopportare.
]]>Una vera fortuna.
Immaginare l’inestimabile patrimonio artistico italiano senza la rappresentazione e la committenza della Chiesa significa restare con ben poco in mano, almeno fino al Rinascimento.
Non fu così in altri paesi. Un po’ in tutto il mondo, a fasi alterne, le religioni e il potere di turno, l’arte proprio non la potevano sopportare.
In principio fu “il Verbo”, ovvero la Bibbia che scrive abbastanza chiaramente: “Io sono il Signore Dio tuo. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.”
Paradosso: nel Corano un divieto simile non c’è. Prevede solo un’esortazione “… preserva me e i miei figli dall'adorazione degli idoli” che è cosa diversa dal non “farsi immagine alcuna”.
In compenso, un rigoroso divieto viene però espresso in libri successivi, gli “ahadith”, che sono i discorsi di Maometto ai discepoli.
A rigor di logica gli “ahadith” sono opera umana e non sono il Corano, però per i religiosi islamici sono legge, e una legge molto precisa.
Non prende di mira soltanto l’oggetto artistico, il manufatto o l’immagine, che non deve ritrarre praticamente alcun soggetto, ma prende di mira esattamente il lavoro dell’artista.
Il “peccato mortale” per l’artista sarebbe la sua “superbia” nel compiere un atto creativo che porta al mondo qualcosa di nuovo, quindi la “creazione” come imitazione indebita di Dio, unico creatore ammesso.
Da questo assioma ecco l’assenza di qualsiasi immagine islamica, se non dei ghirigori decorativi. In tempi anche recenti questa idea ha causato la distruzione di statue e qualsiasi immagine artistica, così come in epoca bizantina si distruggevano immagini e codici miniati.
Mentre in Italia fioriva il Rinascimento, il signor Jehan Cauvin (per gli italiani Calvino) da una parte e Martin Lutero dall’altra rifiutarono i dettami di santa romana Chiesa e diedero vita a calvinisti e protestanti che, manco a farlo apposta, se la presero con le immagini.
In tutta Europa (Gran Bretagna compresa) si divertirono a bruciare quadri e immagini sacre e a spogliare le chiese, per tenerle libere da “peccati”…. E senza nemmeno i ghirigori: muri spogli e tanto basta.
La furia iconoclasta non è privilegio esclusivo delle religioni. La “damnatio memoriae” di romana origine si è affidata ai politici.
Napoleone Bonaparte fece distruggere ben 5.000 “Leoni di San Marco” visto che non poteva razziarli e portarseli al Louvre.
I “Rivoluzionari d’Ottobre” si dedicarono allo sfacelo di aquile, chiese e cattedrali, icone comprese, ritenute simboli della chiesa ortodossa, ricca e corrotta.
Nel 1919 in Cina si salvarono solo opere e manufatti conservati nei musei, mentre in Russia, nel 1989, tutto quello realizzato in nome e nel periodo di Stalin e Lenin fu scientificamente raso al suolo.
Il nazismo si occupò di cancellare l’“Arte degenerata”, salvo derubare e fare incetta del maggiore numero di opere d’arte possibile: si sa “pecunia non olet”.
Lo scempio dei Talebani e in Iraq appartiene a questo nostro stesso millennio.
Insomma, religione e politica hanno un bel conto aperto con l’arte.
Questo conferma sia la potenza dell’arte, sia la responsabilità di chi la fa.
Se è vero, come diceva Gustav Klimt, che ogni epoca ha la sua arte, è anche vero che l’arte ha il potere di influenzare e dirigere un’epoca.
L’Arte sincera non racconta ciò che il mondo è, ma ciò che il mondo diventerà.
Si trasforma in una pratica e infallibile bussola: chi osteggia l’arte, la ritiene dannosa, o anche solo inutile, appartiene alla schiera dei fondamentalisti o dei dittatori.
L’arte come termometro di buona politica e democrazia.
Sta a noi vigilare.
Anche contro i tentativi subdoli, mascherati da “priorità” come chi ci ha detto che “con la cultura non si mangia” o chiude scuole e musei perché… “prima i ristoranti”.
Andrea Giuseppe Fadini
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Nell’antica Grecia toccò a Parrasio e Zeusi ingannare mosche e persone con uva e tende. Michelangelo lodò sé stesso prendendo a martellate il suo Mosè perché sprovvisto di parola e così via.
In sintesi, la capacità di imitare perfettamente la realtà è meritevole e indice di talento e capacità tecniche.
Oggi, grazie anche a robusti aiuti tecnici come Photoshop, tablet, ingranditori, fotografia ecc., realizzare un dipinto perfettamente simile alla realtà è alla portata di quasi tutti. Tempo, applicazione (la famosa regola delle 10.000 ore, con le dovute premesse) e un minimo di capacità vi assicurano il risultato.
Sono sempre più frequenti, nei social e nelle news, immagini che sembrano fotografie dettagliatissime e che, invece, sono “fatti a mano” (o quasi) da pittori “iper-realisti”.
L’iper-realismo nasce verso gli anni ’70 come reazione al mondo dei media sotto il nome “fotorealismo”; sarà poi il gallerista Louis K. Meisel a inventare il nome “iper-realismo”.
Perché “iper”?
Com’è noto l’occhio umano non è in grado di cogliere i particolari e i dettagli della realtà. Il processo della visione è come un gigantesco “puzzle” mentale risolto in frazioni di secondo dalla nostra mente ,unendo le immagini che gli occhi raccolgono saltabeccando veloci da un punto all’altro della realtà.
In questi quadri o stampe i dettagli, invece, sono nitidi e precisi in ogni parte dell’immagine e perciò la visione è superiore alla realtà stessa.
I pionieri di questa disciplina furono Paul Cadden soprannominato “il fotografo a matita” che ricopiando fotografie, soprattutto di volti rugosi che facilitano l’effetto “Wow!”, espone il suo talento.
Richard Estes è specializzato in cabine telefoniche cromate e viste metropolitane a colori.
Il nostrano Luciano Ventrone, pupillo del compianto critico d’arte Federico Zeri, preferisce cesti di frutta e angurie spaccate.
Gregory Thielker si diletta a realizzare quadri come fossero coperti da un vetro bagnato pieno di goccioline.
Tutti virtuosi di una tecnica che da un lato stupisce e meraviglia come un gioco di prestigio, ma che nella sua massima espressione ha come risultato “essere come una fotografia”.
Mi rammenta una battuta che l’attore Laurence Olivier rivolse a Dustin Hoffman durante le riprese del “Maratoneta”.
A volte si ritardavano le riprese perché Dustin Hoffman voleva correre per chilometri per “calarsi nel personaggio”, per essere “vero”.
Al ché Olivier gli disse: “Dustin, basterebbe recitare”.
Il collegamento con il discorso sull’iper-realismo è: dove porta questo modo di dipingere?
Avere padronanza del mezzo tecnico è indispensabile per potersi esprimere, ma se il virtuosismo è fine a sé stesso quale è il senso?
Prendiamo a esempio i “Girasoli” di Vincent Van Gogh: dipingerli dettagliando fino al più intimo colorino del pistillo avrebbe aggiunto o tolto espressività all’immagine?
E cosa ci comunica la copia fotografica dei semini d’anguria in un quadro di Ventrone?
Voglio chiudere raccontando un episodio personale accaduto nella seconda metà del secolo scorso.
In quel tempo frequentavo il liceo artistico di Brera perché dopo aver vinto per ben due anni il concorso parrocchiale di disegno e aver raccolto il tradizionale “…ma l’hai fatto tu?” dai parenti a cui mostravo i miei disegni, la mia vocazione era chiara.
In classe c’ero io e un mio compagno Bruno, lui figlio e nipote di illustratori fumettisti, che sapevamo “copiare” dal vero.
Nelle ore di “ornato” (così si chiamavano le ore destinate al disegno libero senza modelle), dopo le “tavole” obbligatorie di programma, ognuno poteva scegliere come perfezionarsi e io e Bruno decidemmo di continuare a “copiare” immagini, prendendo delle fotografie suggestive e dipingendole a tempera o pastelli secondo soggetto, ma rigorosamente uguali all’originale.
La professoressa, una scenografa molto giovane e tutt’ora in professione nei teatri di tutto il mondo, che pur non aveva interferito con le nostre scelte, un giorno passando a controllare il lavoro ci disse: “Quando smetterete di fare i pappagalli e inizierete a cantare la vostra canzone sarà un bel giorno.”
Era chiaro dalla parola “pappagalli” che era una critica, ma sinceramente non mi era molto chiara l’esortazione.
Andai a chiedere giustificandomi: “Ma professoressa, io mi sto allenando a dipingere bene”
Risposta “E cosa vuoi raccontarmi di diverso da quanto mi dice quella foto?”
Voleva mettermi in crisi? Ci riuscì in pieno.
Arrivare in classe nelle ore di “ornato” e copiare fotografie, che modestamente mi veniva molto bene, era facile. Non avevo nemmeno bisogno di pensare. Era come disegnare un “mandala” o riempire quegli album da disegno coi numeretti.
Ma se dovevo raccontare qualcosa, non avevo scampo: dovevo collegare il cervello.
E, cosa ancor più impegnativa, avere qualcosa da raccontare.
Quel giorno finì la mia carriera di foto-copiatore e iniziò quella di studente di pittura e arte.
Non ho nessuna verità sulla mia tavolozza, ma quel giorno mi fu dato un criterio in più per capire l’arte della pittura.
]]>In Europa, Francia, Spagna e Inghilterra continuavano a finanziare guerra e distruzione fronteggiandosi a vicenda e coinvolgendo anche i Paesi Bassi in una guerra che durò 80 anni e che, per la zona settentrionale, finì nel 1648 con la pace di Westfalia.
Spiacerà saperlo ai sovranisti e “trumpisti” di oggi, ma il motore di tanta prosperità e successo in Olanda fu l’immigrazione di massa.
Tormentati da persecuzioni religiose e guerra, gli ebrei dal Portogallo e dalla Spagna, gli Ugonotti dalla Francia e i mercanti insieme a semplici cittadini si trasferirono verso i Paesi Bassi del nord. Un vero e proprio esodo che, accolto con sapienza e tolleranza, trasformò il porto di Amsterdam in uno dei più importanti del mondo.
La struttura sociale cambiò perché l’aristocrazia vendette la maggior parte dei suoi privilegi alle città, i ricchi borghesi e i mercanti sposarono le figlie degli aristocratici e dei proprietari immobiliari e le cariche pubbliche furono disponibili per tutti (o quasi). Lo status sociale era determinato dalla ricchezza più che dalla posizione preesistente.
In questo piccolo castello di carta prospero e ben assortito, l’arte si diffuse in una forma nuova e “popolare” che, purtroppo, oggi non esiste più.
Era il tempo di Rembrandt, Vermeer, Fabritius, Steen, Van Dijck e altri pittori che non avevano il “potere” come committente, ma la gente comune che poteva permettersi un quadro.
Certo, i “grandi clienti” c’erano come sempre, ma un quadro costava 50 fiorini; per farsi un’idea: lo stipendio di un sarto o di un carpentiere era di 1 fiorino al giorno (tanto costavano 5 chili di pane). Un “tronie” (non ritratto, ma viso d’invenzione), come “La ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer, costava come l’arredamento di una camera da letto.
Le case olandesi si riempirono d’arte. I pittori si specializzarono e seguirono i gusti del pubblico: pittura di genere, nature morte, ritratti, marine, città e paesaggi.
Tutti i quadri furono realizzati con un’abilità tecnica eccezionale, che diventerà proverbiale.
Ci sono pittori abili nell’incontrare il gusto dei “consumatori” che fanno fortuna. Altri, come Vermeer, lentissimi a dipingere, come un giorno di digiuno, che non ascoltano le richieste e che fanno sempre fatica a sbarcare il lunario.
I quadri più apprezzati e richiesti dai ricchi mercanti sono le scene d’interno, pieni di oggetti e particolari minuziosi, oggi diremmo “iperrealisti”, che spuntano i prezzi migliori.
In questo frammento di tempo, durato poco meno di un secolo, il benessere unito al comune sentimento di condivisione, senza barriere di razza, provenienza e ceto sociale permise la creazione e diffusione di quadri stupendi, graditi da tutti e a prezzi contenuti.
I pittori erano conosciuti come oggi noi conosciamo i cantanti di musica leggera e gli abitanti dell’Olanda di quel tempo si compravano i loro quadri come noi gli LP di qualche decennio fa. Le case erano diffusamente decorate e belle, come mai in nessun’altro posto o epoca.
Oggi ci ritroviamo con coniglietti-palloncini rivestiti in acciaio a 86 milioni di euro a favore di un singolo personaggio (Jeff Koons, per non fare nomi) e centinaia di bravissimi pittori e artisti che nessuno conosce (e conoscerà).
Le case sono diffusamente inquinate da brutte immagini su fogli di carta industriale e nessuno di noi ha contatti con “botteghe” d’arte o artisti.
Diversamente, oltre a comprare opere originali e che ci piacciono, ognuno avrebbe un vero e proprio investimento a portata di tasca.
“La ragazza dall’orecchino di perla”, comunque non in vendita, oggi potrebbe essere facilmente venduta a non meno di 60 milioni di euro che, rispetto a 50 fiorini del 1600, è una ottima rendita.
Mi piacerebbe, magari grazie anche a internet, la rinascita di un mercato dell’arte sano e “popolare” vicino a questo modello del secolo d’oro olandese.
È necessaria, però, la contemporanea diffusione di tolleranza, sapienza e condivisione responsabile. Maggior cultura, in sintesi.
Un’altra utopia alla “Imagine” di John Lennon.
A.G. Fadini
Pitteikon.com
]]>Una distanza temporale che il nostro cervello percepisce a fatica. Lo accetta come dato, ma non si riesce a concepire bene un tempo così lungo.
L’uomo vive ancora nelle caverne, ha una vita media di 30 anni, vive di caccia raccogliendo erbe selvatiche.
È capace di costruirsi delle “amigdale”, ovvero delle pietre scheggiate e grossolanamente modellate per farsi un’ascia, incidere e lavorare le pelli animali con le quali si copre.
Un primo elemento su cui riflettere: consideriamo i graffiti sulle pareti delle caverne i primi segni di “pittura”.
Ebbene, questi compaiono contemporaneamente in tutto il mondo dalla Cina alle Americhe e lo stile è pressoché uguale.
L’intenzione e la pratica di creare dei segni grafici nascono identiche in tutti gli esseri umani del mondo. Fu la considerazione di Picasso e Klee (per citare due tra i pittori più famosi) poter studiare dei segni grafici precedenti a qualsiasi cultura e, per questo, non influenzati da nessuna accademia, obbligo o dogma creato dalla civiltà complessa.
Un segno puro. L’uomo, il colore e il segno.
Sia Klee che Picasso utilizzarono molto lo “stile” preistorico nei loro quadri.
Una seconda riflessione ci racconta che l’immagine, il disegno compare 30.000 anni prima della scrittura. Non solo. La scrittura nasce già differenziata nelle varie zone della terra. Ideogrammi, geroglifici, caratteri cuneiformi ecc. fin dall’origine; manca una sostanziale unità.
Torniamo alla pittura.
Perché gli uomini hanno sentito il bisogno di dipingere?
La funzione delle pitture rupestri è al tempo stesso creativa e magica, ma non nel senso religioso del termine “magico”. L’uomo preistorico non credeva in nessun dio o religione, ma era pratico.
Dipingendo un bisonte si impossessava del bisonte. Lo spazio-tempo tra il disegno e l’effettiva cattura per lui non esiste.
È come se noi oggi mettessimo trappole per topi, né più né meno.
Un aneddoto può aiutare a chiarire il concetto. Un atteggiamento simile lo si ritrova nell’arte dei nativi americani. Un nativo, osservando che un ricercatore “bianco” disegnava dei bisonti, riferì che da quel momento i bisonti erano diminuiti.
Più bisonti si disegnavano meno bisonti in circolazione, perché quelli disegnati erano “presi”. Così come più tardi per un nativo essere fotografato equivaleva a perdere anima e identità: non restava nulla di lui.
Questa era la “naturalezza” della pittura preistorica, che nulla ha a che fare con le pitture delle tribù o con quelle dei bambini.
I bambini dipingono ciò che sanno, non quello che vedono. Il preistorico dipinge ciò che vede. E con quale precisione e maestria! Già adopera il chiaroscuro e linee di diverso spessore per ottenere le profondità e la distanza tra le cose.
I disegni dei bambini, invece, partono dal pensiero e non dalla natura, e infatti stilizzano e geometrizzano le figure.
Nessun intento decorativo o estetico, di “gioia per gli occhi”, ma creazione di un incantesimo.
Chiaro indizio è la posizione in cui il “pittore” (chiamiamolo così) realizzava i suoi disegni: negli angoli più nascosti o meno visibili. Fosse decorativa sarebbe il contrario.
Inoltre, le figure sono aggiunte e si sommano alle altre, invece di utilizzare altro spazio che c’era in abbondanza.
Le figure degli animali, infine, sono trafitte, come una “caccia in effigie”, non solo da frecce o lance disegnate, ma anche da colpi reali, inferti sulla roccia e sopra i disegni, da armi reali.
Per questo è necessario che l’immagine sia mimetica e naturalistica, quasi impressionistica e non idealizzata. L’immagine, in incantesimo, sostituisce il reale nella magia dell’atto creativo.
Sono passati migliaia di anni, fino ad arrivare all’arte moderna con l’impressionismo e i successivi stili figurativi, ma concetti e pratiche dell’arte erano già lì, tra le mani e nel pensiero degli uomini preistorici.
]]>Ma il resto del mondo? Dov’è l’arte di tutti gli altri paesi? Iniziamo dalla Russia
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Noi tutti siamo abituati a considerare l’arte secondo il percorso tradizionale tracciato dagli storici dell’occidente.
Preistoria, arte greca e poi romana e l’arte bizantina che durò 6 secoli fino alla rivoluzione di Giotto del 1200.
Masaccio, Mantegna, Lippi, Piero della Francesca fino al rinascimento con Leonardo, Raffaello e Michelangelo, poi Caravaggio, e via così fino a quando Parigi si porta via il centro della pittura con i suoi impressionisti. Un palco di rilievo resta agli olandesi (i fiamminghi) e agli spagnoli fino a Goya e Picasso.
Da Duchamp in avanti saranno poi gli USA a determinare cosa è arte e cosa no.
Ma il resto del mondo?
Dov’è l’arte di tutti gli altri paesi?
Inizio dalla Russia, considerando il vastissimo territorio che nel nostro immaginario chiamiamo Russia ma che, nel corso dei secoli, ha avuto parecchie denominazioni e confini.
L’inizio di un’entità monarchica che unisce un po’ di paesi slavo–orientali è la Rus’ di Kiev nell’anno 860, con capitale, ovviamente a Kiev.
Questa data è importante perché è da qui che si ritiene sia partita la “conversione” al cristianesimo dei popoli della zona.
E fu con l’avvento del cristianesimo che l’arte si uniformò passando dal modello bizantino all’affermazione di una propria caratteristica: l’icona.
In genere le icone sono pitture su tavola di dimensioni relativamente piccole, anche se in alcune chiese e monasteri si trovino di misure molto più grandi.
L’icona ha una funzione religiosa e rituale e sia le figure sia il modo di rappresentarle è codificato e unico. Rigorosamente bidimensionali, su fondo oro si ritraevano i santi, gli angeli e le storie della Bibbia.
Nessun nudo e nessuna fantasia.
Nelle abitazioni russe si dedicava uno spazio chiamato “krasnyi ugol” (angolo rosso) alla preghiera e alle icone e agli altri oggetti religiosi dedicati alla preghiera.
Rigida anche la composizione di questo “angolo”.
Bisognava utilizzare una parete a est (perché è da est che il Signore tornerà, come un sole nascente) e l’allestimento prevedeva, tra le altre cose, un’icona di Cristo, una di Cristo con Madre e l’icona del santo patrono della famiglia; si aggiungevano altre icone importanti secondo le possibilità della famiglia.
Ricca di simboli e di contenuti, questa forma d’arte pressoché unica dura per secoli e non si fa minimamente influenzare da quanto avviene nella confinante Europa. Uguale a sé stessa per secoli l’arte iconica non ha nomi e protagonisti come i pittori occidentali. Nemmeno le firmano. Un’eccezione è il pittore Andrej Rublev (1400 ca), poi diventato santo.
Bisognerà attendere il 1700 per rompere questa monotonia artistica e per trovare, insieme alla rivoluzione industriale e agli altri progressi dei popoli, nuove forme di espressione figurativa nei paesi dell’Unione sovietica.
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Inizio raccontandovi un episodio che mi è realmente accaduto.
Negli anni ’70 collaboravo con una televisione privata. Erano i primi tempi e le TV private erano ancora circondate da novità e un certo senso di libertà.
Per questo alcuni cantanti, i big del momento, venivano volentieri ospiti in queste trasmissioni improvvisate. Curiosità, pubblicità… perché no?
Così ebbi occasione di domandare a uno dei manager più importanti di una casa discografica spiegazione di un dubbio che mi incuriosiva.
In quel momento primeggiava nelle “classifiche” e in ogni dove un cantante con una voce, francamente, poco dotata e poco adatta al canto.
“Perché avete scelto lui, con tanti altri sicuramente meglio dotati e con un timbro vocale più aggraziato (come minimo)?”
La risposta: “Per noi è molto meglio che abbia poche capacità e ne sia consapevole. Possiamo gestirlo meglio e creerà molti meno problemi di chi ha tecnica e capacità.”
Non l’avrei mai detto. Nel mondo dello spettacolo “il sistema” preferisce investire e creare dei personaggi dal nulla, piuttosto che scegliere il meglio. Così facendo si gestisce tutto più facilmente.
Perché questo aneddoto? Perché lo collego, per similitudine, a quanto è successo all’arte a partire dal 1920.
Negli stessi anni in cui Paul Klee e Wassilij Kandinsky procedevano con passione e rigore alla teorizzazione e pratica dell’arte figurativa moderna, il mercato dell’arte si spostava dalla Francia negli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti, che non avevano alcuna tradizione e storia a cui fare riferimento, decisero di creare il loro “sistema dell’arte”.
E, guardacaso, cosa avvenne? La signora Rrose Sèlavy (in realtà si tratta di Marcel Duchamp travestito da donna), usando un altro pseudonimo R. Mutt ,firma un orinatoio, che tra l’altro nemmeno viene esposto, ma solo fotografato, e il gioco è fatto: questa è la nuova arte.
Non serve alcuna capacità tecnica. È l’artista (e il sistema che lo crea e sostiene) che decide cosa è arte. Una ruota di bicicletta? Decido che è arte. Wow… meraviglia! Che acume! Che trovata!
Seguiranno artisti che sgocciolano vernice per terra, altri che espongono scatole di detersivo e così via.
Ma lo spettacolo, addirittura più interessante ce lo forniscono i critici. Per esempio:
“L’ambivalenza tra Marcel Duchamp e Rrose Sèlavy costituisce un contributo radicale per una revisione dei canoni dell’arte”.
E ancora:
“Un gesto apparentemente banale e provocatorio che cela, però, profonde implicazioni intellettuali sul ruolo dell’arte nella società contemporanea.”
E infine:
“… è accettabile e accettato perché alla base del gesto c’è l’artista perfettamente “noto”.
Quindi basta essere “noti” e anche il travestimento diventa opera d’arte.
A questo punto, se divento “noto” e faccio una frittata di 7, uova potrei dire:
“La simbologia esoterica del numero 7 si fonde utilizzando uova che a loro volta sono simbolo del mistero vitale per la ben nota aporia (prima loro o la gallina), e attraverso la catarsi dell’Hephaistos, cambiano forma nell’esser-ci e diventano altro da sé, acquisendo nuove proprietà e caratteristiche, confluendo nel cerchio che altro non è che tempo ciclico e universale.”
Che ve ne pare? Altro che frittata!
Originariamente, la parola arte aveva un'accezione pratica nel senso di abilità in un'attività produttiva, capacità di fare armonicamente in maniera adatta.
Tant’è che ancora si dice: “A regola d’arte”.
Mi piacerebbe poter escludere la furbizia e l’inganno dalle “attività produttive” riconducibili alla parola “Arte”, così come vuole il sistema.
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Fin dai primi decenni del 1800, quando Niepce “inventò” la fotografia, si iniziò a dibattere e disquisire se la fotografia si poteva considerare “Arte” come la pittura o no.
A ben vedere i pittori dell’epoca non si fecero molte domande, ma usarono le fotografie per semplificare il loro lavoro di pittori. Degas, Gauguin, Caillebotte e tutti i pittori successivi potevano risparmiare:
Fino a circa 30 anni fa le differenze tra le due attività erano ben definite:
Non si può fotografare un sogno e non si può allegare un dipinto in una pratica per un rimborso assicurativo.
Alla fotografia compete un rapporto con la realtà riconosciuto da tutti (anche dai tribunali), mentre alla pittura è affidato il compito di illustrare, comunicare emozioni attraverso linee e colori.
L’uomo tende, da sempre, a complicarsi la vita e per decenni le più vivide intelligenze filosofiche, critiche e storiche hanno dibattuto e riempito librerie ponendosi il quesito: “la fotografia è arte”?
Domanda bizzarra visto che nessuno in 2020 anni ha saputo definire con universale consenso che cos’è “Arte”.
Avrebbero potuto impegnarsi a definire prima cos’è “Arte” e poi sarebbe stato facile verificare se la fotografia è coerente o no con la definizione così faticosamente scoperta.
Anche le persone normalissime sono un po’ confuse; infatti, sappiamo bene che si usa dire: “Wow! che bella foto… sembra un dipinto” e contemporaneamente “Wow! che bel dipinto sembra una foto!”.
Siccome piove sul bagnato, nel 1975 il ricercatore della Kodak Steven Sasson inventa il sistema fotografico digitale (cioè senza pellicola, ma l’immagine è un bel mosaico di quadratini chiamati pixel) e, cosa ancora più grave, nel 1988 il signor John Knoll si presenta con un software di sua invenzione che si chiamerà Photoshop.
Nella lite senza fine tra pittori e fotografi artisti si inserisce astio e disprezzo anche tra fotografi che usano la pellicola e quelli che usano il sistema digitale.
Chi usa la pellicola si ritiene un fotografo autentico e accusa gli altri di nullità tecnica, chi usa il digitale guarda a chi usa la pellicola come a una specie animale in via di estinzione.
Un dato di fatto è però che, con l’avvento del sistema digitale e del software di modifica Photoshop, il rapporto tra fotografia e realtà è compromesso.
Un marito fotografato con l’amante può soavemente dire: Non sono io… è una foto “photoshoppata” (cioè ritoccata con il famoso programma di cui sopra).
Con Photoshop potete rivoluzionare, cancellare, sostituire qualsiasi pixel della foto con qualsiasi cosa vi venga in mente.
Per definire se la foto risponde al reale occorrono fior di periti e attrezzature e, tuttavia, non sempre si può mettere la mano sul fuoco: potreste ritrovarvi monchi.
Un vantaggio in tutta questa storia c’è.
Con il sistema digitale si possono benissimo fotografare i sogni, nel senso che partendo da una foto con soggetto reale potete togliere, aggiungere, disegnare, colorare… insomma: dipingere.
Dunque, la pittura e la fotografia si sono unite indissolubilmente perché è possibile ottenere qualsiasi immagine sia con la pittura (pennelli, tela ecc.. ) sia con un buon PC e una macchina fotografica digitale.
Resta solo ancora una domanda senza risposta: cos’è l’Arte?
]]>Com’è noto, nella realtà le dimensioni visibili sono tre: altezza, larghezza e profondità. Gli scultori non hanno problemi perché, da sempre, le usano tutte e tre.
La pittura e le rappresentazioni grafiche, invece, ne hanno a disposizione due.
Nella preistoria gli uomini avevano una vista che noi nemmeno possiamo immaginare e nei graffiti possiamo vedere che già allora si praticava una specie di “chiaroscuro”, perché volevano simulare la profondità degli animali.
I pittori greci e romani conoscevano benissimo e spesso mettevano in pratica sia il chiaroscuro che il gioco delle distanze, per simulare la profondità.
Gli egiziani non solo, invece, preferivano una rigorosa bidimensionalità, ma, tipo i cubisti del 1900, addirittura ribaltavano alcune forme per descriverle meglio.
L’arte bizantina, che è durata secoli, esigeva solo due dimensioni e annullava qualsiasi possibile profondità con i suoi fondi blu e oro.
Poi ti arriva Giotto di Bondone.
Il geniale pittore della fine del 1200 sdogana definitivamente la terza dimensione, dando corpo alle figure, inserendo architetture e paesaggi e, non contento, descrivendo anche le emozioni e gli stati d’animo, con gesti e movimenti d’espressione sui visi dei personaggi.
Non a caso nella storia dell’arte Giotto viene preso come il punto di partenza dell’arte occidentale.
E qui per ben 700 anni i pittori di tutta Europa considerano regola la simulazione dell’ambiente reale a tre dimensioni, usando chiaroscuro, prospettiva, ombre, luci e tutti gli accorgimenti tecnici, per dare l’illusione di una presenza reale.
Già con i tre big del Rinascimento, Leonardo, Raffaello e Michelangelo, il corredo tecnico raggiunge il massimo e diventa “Accademia”.
Tutto bene fino alla metà del 1800, quando i pittori iniziano a considerare più “espressivo” usare solo due dimensioni e il ritorno a tinte piatte, anche sotto l’influenza del “giapponismo”, che tanto colpì anche Van Gogh, e l’abolizione di tutti gli artifici tecnici per dare volume alle figure.
La pittura è a due dimensioni? Bene, allora usiamone solo due e diamo spazio a colori e linee in libertà.
Liberati anche dal “mestiere” di dover descrivere, grazie alla fotografia, la pittura si è scelta una strada dove la realtà esterna non interessa o, tutt’al più, è un optional compositivo. Fine della “mimesi” e della terza dimensione.
Contemporaneamente l’arte si è liberata del proprio “pubblico” come era avvenuto per millenni, ovvero di tutta la gente che guardava all’arte come parte integrante della propria vita.
Si è auto-confinata in un ristretto cerchio museale-mediatico-finanziario, dove chi è all’interno del cerchio è bravo, evoluto, colto e intelligente, chi lo contesta, non lo capisce o rifiuta è un ignorante.
Se consideriamo l’arte figurativa, viviamo oggi una fase di elaborazione e sperimentazione tutta concettuale.
Iper-realisti a parte, dove con i potenti mezzi tecnici di oggi chiunque dotato di pazienza e un minimo di manualità può diventare iper-realista, siamo in attesa di qualcosa di nuovo che parli a tutti noi.
Nella speranza che quanto dichiarato a turno da eminenti critici e studiosi, ovvero che l’arte (figurativa) è morta, si riveli falso
Fadini
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Nei primi decenni del 1800 si diffonde un nuovo tipo di riproduzione grafica che prende il nome di “litografia”.
Lito ha origine dal greco “lithos” e vuol dire pietra.
All’inizio infatti Alois Senefelder, l’inventore di questo procedimento, scoprì, forse per caso, una pietra nelle cave vicino a Monaco di Baviera particolarmente adatta allo scopo.
Semplificando si trattava di disegnare con una matita o inchiostro grasso su questa pietra. Una volta finito il disegno si spennellava sulla pietra un liquido a base di acido, gomma arabica e acqua chiamata “preparazione”.
Questa “preparazione” creava una reazione con le parti della pietra, non protette dal disegno con materia grassa, rendendole “idrofile”, cioè che si legano con l’acqua.
Dopo 24 ore la pietra “matrice” è pronta: prima si bagna così che tutte le parti non disegnate siano “umide” e poi si passa un rullo di caucciù con l’inchiostro che quindi aderirà solo nelle parti asciutte che sono quelle disegnate.
L’inchiostro aderisce dove c’è il disegno e viene respinto dalla pietra bagnata.
Si mette sopra un bel foglio, un cartone e si pressa.
E alla fine si toglie piano il foglio e si lascia asciugare; sul foglio rimane impressa la copia esatta del disegno.
Questo procedimento progredirà, poi, nella versione autografica che non richiede più di disegnare alla rovescia, ma fa corrispondere perfettamente il disegno dell’artista alla copia finale.
Questo sistema permette all’artista di disegnare, semplicemente, e aumenta di moltissimo la velocità di riproduzione di un disegno.
I sistemi precedenti richiedevano, come ben sapeva Durer, l’incisione di una lastra o di una pietra o di una base di legno che, oltre ad essere meno precisa, richiedeva una manualità davvero eccezionale e molto tempo in più.
Ne approfittò, tra i tanti di cui parleremo, Gustave Dorè che illustrò così centinaia di libri e di vicende, tra cui la Divina Commedia e la Bibbia con una fantasia unica ed eccezionale che ispirò da Mèlies (il primo regista cinematografico), al Signore degli Anelli fino a Guerre Stellari.
Si servirono delle idee di Dorè anche Walt Disney, Tim Burton fino a William Steig, il creatore di Shrek.
A.G. Fadini
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Perché l’arte contemporanea è incomprensibile?
Nella seconda metà del 1800, grazie al contributo degli impressionisti, si iniziò a parlare di “scandalo” per un’opera artistica.
Se vogliamo essere precisi il primo “caso” provvisto di gran clamore fu creato da Edouard Manet, ricco rampollo nato nel lusso grazie al padre, alto funzionario del ministero della giustizia, e alla madre, figlia di un diplomatico, dipingendo “Colazione sull’erba”.
Manet sapeva benissimo che proponendo un pic-nic con una donna nuda in mezzo a due uomini vestiti avrebbe creato un vespaio.
I suoi esordi come pittore erano promettenti (vedi “il chitarrista spagnolo”), ma tutto sommato, come dicevano i suoi stessi colleghi, era meglio che si dedicasse ad altro, dipingere non era per lui.
E se non puoi stupire per i tuoi talenti quale strada puoi scegliere se la voglia di notorietà ti assilla un po’?
Facciamo un bello scandalo.
Uno scandalo come si deve, però, va costruito per bene.
Il quadro di Manet, come previsto, viene rifiutato dal “Salon”, ma se non puoi esporlo come crei scandalo?
Ricordiamo che fino ad allora, ed è stato così per secoli, l’arte non era attività per cerchie ristrette. Per “élite” diremmo oggi. Quadri e affreschi erano per tutti e l’arte permeava la vita e interagiva con la popolazione tutti i giorni. Nelle chiese, nei luoghi comuni, nelle piazze e per gli artisti era un dovere e un piacere farsi capire da tutti.
Come oggi un film per il cinema o la televisione.
In aiuto a Manet arriva Napoleone III, che nel 1863 organizza il “Salon des Refusés” dove tutte le opere rifiutate dall’Accademia si potranno esporre addirittura nel palazzo dell’industria, sempre a Parigi.
Il gioco è fatto.
La gente vede il quadro e lo scandalo si propaga.
Da quel momento scandalizzare e rivoluzionare entra nei programmi di tutte le avanguardie che non hanno più alcun interesse a farsi comprendere.
Chi non capisce è ignorante per definizione, nel senso che ignora i veri e profondi significati dei veri artisti. Il discorso artistico viene mediato e interpretato da critici e curatori d’arte, galleristi con solide amicizie tra i direttori dei musei e un ridottissimo pubblico di “fruitori” e “investitori” che hanno gli strumenti intellettuali o economici per “capire”.
L’artista non ha più come riferimento tutti noi, la gente, ma i musei e le persone che contano nel “giro” della diffusione artistica.
Scandalizzare è un volano sicuro per avere visibilità, quella che oggi chiamiamo “audience”.
E da allora via!
Con Duchamp dove il suo “orinatoio/fontana” non ha nemmeno bisogno di essere esposto da nessuna parte per diventare “l'opera d'arte più influente del ventesimo secolo”, con Piero Manzoni e la “Merda d’artista” in scatolette nei maggiori musei, fino agli animali a fette in formalina di Damien Hirst, ai bambini impiccati di Cattelan (o la banana appiccicata, scegliete voi) e i falsi graffiti murali di Banksy che in realtà sono “stencil” preparati in laboratorio e perfettamente autorizzati.
Tutti artisti con quotazioni da capogiro, con sofisticate motivazioni concettuali, che non piacciono al 99% delle persone (meglio così), che contestano il sistema museale dall’interno dei musei e, sostanzialmente, appartengono a un circuito autoreferenziale.
Ottimo viatico per movimenti di denaro sul modello dei due amici, Moishele e Ainslee, che si vendono lo stesso quadro a turno nella barzelletta di Moni Ovadia.
In questo modello, meno l’arte si capisce e meglio è, a tutela di un sistema dove molti pagano (il loro bravo biglietto in decine di mostre inutili se non dannose o con parte delle imposte destinate ai “beni culturali”) e pochi guadagnano molto.
Oggi al povero Van Gogh (massacrato dallo sfruttamento massivo postumo) che voleva ardentemente solo essere capito, consiglierebbero un bel “happening” in cui tagliarsi un orecchio in diretta streaming.
I suoi quadri? Troppo comprensibili.
A.G. Fadini
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Jan Vermeer ha 25 o 26 anni quando dipinge questo capolavoro assoluto di tutti i tempi.
Siamo in una cucina, una di quelle grandi cucine olandesi dove si vive, dove si abita. Anche la numerosa famiglia di Vermeer, di notte dorme in questa vasta cucina.
Gli oggetti sono quelli di uso comune e in basso c’è uno scaldino. Va tenuto lontano però, dalla parte dove si conserva il latte e le uova che hanno bisogno di fresco.
In rivista gli oggetti e la loro “grana”, la materia di cui sono fatti: la cesta di vimini, il pane, le brocche, la pentola da forno dove la donna, che non è la padrona di casa, ma una lattaia, sta preparando, forse, un dolce.
Ha messo le uova, il pane e ora versa il latte appena munto. La cucina è pulita e in ordine com’è tipico della cultura olandese. Quasi una mania.
Il quadro, a vederlo dal vero, sembra più piccolo di quello che si pensa.
E osservandolo con attenzione ancora da più vicino si notano dei punti di luce diffusi. Ci sono in tutto il quadro. Non è un difetto, è Vermeer che vuole indicare il punto di caduta della luce su quegli oggetti.
Dalla finestra, seppur dimessa e con un vetro rotto, che è la vera protagonista del quadro, nevica la luce fioccando su tutti gli oggetti all’interno.
Come si spiega questo miracolo della pittura? Difficile e forse inspiegabile, ma si può descrivere. È la meravigliosa esattezza nella resa delle superfici e dei tessuti senza però indurire i contorni o la morbidezza della trama.
Una fotografia in cui l’autore è capace di sfumare i contorni senza offuscarne le forme.
La combinazione di morbidezza e di precisione è la sua caratteristica inimitabile.
Ha senso chiedersi se questo quadro ha una chiave di lettura? Se ha un significato? È un’esigenza tutta italiana chiedersi assolutamente “il perché”.
Davanti al quadro, però, sorridevo e non avevo bisogno di risposte.
Se vogliamo arzigogolare possiamo scoprire che nelle piastrelle in basso una specie di zoccolo della parete della cucina, Vermeer ha disegnato un piccolo cupido, proprio vicino allo scaldino. L’amore e il suo calore?
Come pure la “lattaia”, nell’immaginario olandese, gode di una libertà sessuale che è impossibile per le altre donne della casa. È un’allusione sessuale che la brocca completa? E l’occhio che guarda è un occhio maschile?
Ma la figura della donna è monumentale, pulita, quasi una madonna in una cucina dove la parete riporta pesino i chiodi senza uso e i buchi dei chiodi nel muro un po’ sbeccato.
Wislawa Szymborska è la mia poetessa preferita.
Anche lei è passata dove sono passato io, ad Amsterdam e ha visto il quadro che ho visto anche io.
Ma lei ha saputo scrivere parole con le quali voglio chiudere:
Finchè quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento
giorno dopo giorno versa
il latte dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo.
A.G.Fadini
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In tutti i libri di storia dell’arte Paul Klee viene indicato come uno dei fondatori dell’arte astratta.
L’arte astratta si contrappone a quella “reale” perché, mentre nella seconda quello che si dipinge corrisponde, grossomodo, a quello che si vede e che tutti possono vedere, nell’arte astratta ci sono solo colori e forme in libertà.
Nell’arte tradizionale una bottiglia, anche se in infiniti modi e stili, resta una bottiglia e basta chiedere: cos’è? E tutti sanno rispondere: “Una bottiglia!”.
Nell’arte astratta non si può chiedere “cos’è”, perché una risposta non c’è.
Spesso si paragona l’arte astratta alla musica, perché è un’altra attività artistica dove non puoi chiedere “cos’è”, ovvero non puoi dire: “suonami un paesaggio!” o “vorrei ascoltare il mio ritratto”.
L’astrattismo accosta colori e forme in libertà senza descrivere nulla se non sé stesso, una sonata non descrive nulla se non il piacere delle armonie che ti arrivano all’orecchio.
Questa premessa mi è utile per spiegare la mia sorpresa quando vedo i quadri di Paul Klee e mi dicono che è astratto: a mio parere si riconoscono delle cose ben chiare.
Prendiamo questo quadro del 1920: “Paesaggio miracoloso”.
Lo osservo e nella mia testa si forma l’idea di una casa, c’è anche una finestra con le tendine rosse. Nell’altra finestra un po’ più a destra si intravede una persona che forse dipinge.
Si vede chiaramente che la casa a forma di freccia è fatta di assi di legno, anche perché sono simili a quelle di una nave che è all’approdo proprio lì vicino.
C’è anche il capitano sul ponticello giallo che afferma felice: “112!”. Probabile che sia contento perché la casa è la sua: la 112. E lui è rientrato da un lungo viaggio.
Il vero miracolo è il paesaggio, perché è fatto della stessa sostanza delle assi della casa e della nave, così tutto è collegato e ogni cosa è al suo posto.
Ai margini le cose sono un po’ sfocate, perché così si presentano i ricordi.
Però siamo al sicuro: ce lo dicono i colori caldi e accoglienti. E poi si sa che le righe orizzontali danno pace.
E questa sarebbe arte astratta?
Chiamiamola come vogliamo. È l’arte di Paul Klee.
]]>Evaristo Baschenis fu pittore nel ‘600. Nasce a Bergamo nel 1617, muore a Bergamo nel 1677.
Ho vissuto molti anni a Bergamo e una delle battute a dileggio dei bergamaschi è: “…ma vieni dalla Val Brembana?...”.
Baschenis veniva dalla Val Brembana, ma i suoi quadri sbugiardano questa battuta (almeno per lui).
È vero che tutta la dinastia dei Baschenis è fatta da pittori fin dal 1400, però non è un caso che il più famoso sia Evaristo.
Non segue le orme dei parenti e non si dedica ad affrescare chiese, ma inventa addirittura un genere pittorico: la natura morta (nome che odio) a tema musicale.
In sintesi, dipinge, oltre a suppellettili vari, strumenti musicali. Il nostro Baschenis è anche musicista, dunque approfitta della sua passione.
Intorno ai 23 anni, o poco dopo, prende i voti e diventa “reverendo”.
Questa condizione di “ecclesiastico” gli consente di avere tutto il tempo che vuole per dipingere e di viaggiare a piacere.
Oggi diremmo che la sua tecnica è “iperrealista”: è capace di dipingere i dettagli in modo stupefacente. Al confronto, però, gli iperrealisti di oggi fanno una figura da dilettanti.
Nel 1600, infatti, non c’era la fotografia, non c’era Photoshop, nessun tablet e nemmeno ingranditori e stampanti plotter.
Solo la sua mano, i colori (nemmeno in tubetto) e la tela. Tutt’al più una camera ottica per aiutarsi nella prospettiva, che comunque è perfetta.
Un esempio per tutti? La polvere.
Nelle mandole o violini rovesciati Evaristo dipinge un velo di polvere.
Vien voglia di toglierla col dito…
Di fronte a tecnica così abile si può davvero parlare di Arte. E tutti gli artisti che si etichettano tali affettando pecore, proponendo ricami, palloncini a coniglietto o appiccicando banane possono davvero ringraziare “la chiacchiera concettuale” che li ha miracolati negli anni 2000.
La polvere di Evaristo è un fatto.
]]>La natività più antica del mondo si trova a Roma, nelle Catacombe di Priscilla, la prima rappresentazione della Natività della storia.
L’affresco è del 230/240.
È la più antica scena della Natività dell’arte occidentale.
Il nome delle catacombe deriva, probabilmente, dal nome della donna che regalò il terreno per la realizzazione dell’area.
L’immagine rappresenta la Madonna che abbraccia con tenerezza il bambino per allattarlo.
Il bambino, però, si volta, quasi fosse distratto da qualcuno, forse dallo stesso osservatore.
Vicino alla Madonna c’è una figura maschile, ma non è San Giuseppe che comparirà solo dopo, nell’iconografia mariana.
È un profeta: Isaia, Balaam o Michea. Non è dato saperlo con esattezza.
Il profeta indica una stella, come previsto dal Vecchio Testamento: «Dal grembo prima della stella del mattino ti ho generato»
L’artista intendeva legare, così, la profezia messianica alle vicende dell’Antico e del Nuovo testamento.
Questa prima raffigurazione ha influenzato secoli di pittura nell’osservanza dei simboli e della teologia cristiana.
L’arte, davvero, attraversa i secoli.
A.G. Fadini
www.pitteikon.com
]]>Grazie all’attività degli “Amici del Louvre” il celebre museo francese si porta a casa un altro capolavoro italiano.
Si tratta del grande quadro (m 3,50 per 2,10) di Gianbattista Tiepolo che raffigura la dea Giunone.
Gli “Amici del Louvre” hanno messo mano al portafoglio e sborsato 1,5 milioni di euro, comprando l’opera da un “collezionista privato” di cui, al momento, non è noto il nome.
Giunone è tra le tre divinità mitologiche più importanti insieme a Giove e Minerva. Protettrice del matrimonio, della femminilità e del parto, ma anche degli animali, le era sacro il pavone che, infatti, Tiepolo le ha messo in braccio.
Una elegante e inconsueta costruzione formale raffigura la Dea tra le nuvole in alto, vestita di ricchi drappi e con una camicia bianca.
Collezionate anche voi questa immagine suggestiva grazie a una edizione speciale delle stampe Pitteikon su carta a mano di Amalfi nel formato 30x42 circa.
Non servono milioni di euro… ne bastano 49.
Davvero è così difficile capire l’arte astratta?
Fino a tutto il 1800 il problema non esisteva.
La pittura aveva il compito di illustrare, raccontare e celebrare avvenimenti, persone e religioni; faceva anche da catechista.
Canoni precisi imponevano alle “botteghe” dei maestri come si dovevano rappresentare le cose. Il massimo della trasgressione poteva essere lo stile, ma niente di più.
Come l’architettura che ha fondamenti inamovibili: il tetto sta sopra, le fondamenta in basso e la casa è in mezzo.
Nasce la fotografia
Nel 1826 il francese Joseph Nicéphore Niépce scatta la prima fotografia, e per l’arte figurativa cambia tutto.
Ritratti, scene, riprese dal mondo reale non hanno più bisogno di mesi di lavoro e della sapiente maestria dei pittori: basta un fotografo.
I pittori si ritrovano come i lampionai quando arrivò la corrente elettrica: disoccupati grazie a Thomas Edison hanno dovuto ridare un senso alla loro attività.
Arrivano gli imbratta-tele
Iniziano gli impressionisti. I loro quadri sono ancora perfettamente comprensibili a tutti, e oggi piacciono anche più delle opere precedenti.
Ma il giudizio dei loro contemporanei su Monet, Cezanne, Van Gogh e compagni si riassume in un ironico disprezzo: sono imbratta-tele.
L’inesorabile estinzione delle botteghe di pittura, perché conviene rivolgersi a un fotografo, accompagna i pittori sulla strada dell’espressione e della comunicazione personale.
Come i poeti e i musicisti.
Esprimere sè stessi e comunicare
Ed ecco che, liberi da qualsiasi regola e legge accademica, nasce l’arte astratta.
Wassilij Kandinskij e Paul Klee sono i primi che oltre a praticare la pittura astratta ne scrivono le ragioni e le teorie.
Di fronte a questa novità espressiva molte persone liquidano la complessità e l’impegno di molti artisti con i giudizi: non sanno dipingere, non la capisco, non vuol dir nulla, lo so fare anch’io.
Pittura classica e musica leggera
Anche nella musica che, fortunatamente non ha mai dovuto descrivere nulla, c’è una reazione simile.
Prendiamo un fan di Emma Marrone o Tiziano Ferro e poniamolo all’ascolto di un pezzo di Arnold Schoenberg (compositore austriaco di musica dodecafonica).
Dirà che non è musica o che non la capisce, “non gli piace”. Vista la complessità d’esecuzione, almeno, non dirà mai che i musicisti non sanno suonare. Del resto, questa specifica categoria di amanti della musica, in genere trova noioso anche Brahms.
So dipingere come Raffaello.
Le immagini affiancate di questo post sono tutte e due di Wassilij Kandinskij.
Ho voluto dimostrare, ma possiamo farlo con Picasso e addirittura con Jackson Pollock (quello che sgocciolava i colori sulla tela per terra), che questi pittori sapevano dipingere benissimo e, all’occorrenza nulla da invidiare alla pittura accademica.
E allora?
Il succo è semplice.
Conoscere per capire
Prima di disprezzare e giudicare un’opera artistica prendiamo informazioni.
Cerchiamo di capire perché lavorano in quel modo e qual è la loro poetica a cui, comunque, stanno dedicando la vita.
Una volta conosciute le ragioni dell’artista saremo liberi di esprimere il nostro dissenso o giudizio negativo.
Assicuriamoci, però, che il dissenso non sia soltanto figlio dell’ignoranza.
]]>Nascere a Venezia al tempo di Tiziano non fu una bella idea. La bottega del Vecellio faceva da padrone e anche per questo l’ombroso Lotto visse girovago.
Andare in giro per l’Italia aveva i suoi vantaggi, perché così Lorenzo Lotto vide tutta l’arte che c’era da vedere, da Raffaello a Leonardo e altre realtà diverse e stimolanti.
Così nel 1534, per la confraternita dei mercanti a Recanati, dipinse uno dei suoi capolavori: L’annunciazione, che poi si chiamò, con titanico sforzo di fantasia: L’annunciazione di Recanati.
Potete cercare quanto volete, ma tra centinaia di annunciazioni dipinte in un secolo non ne troverete mai una simile.
L’ambientazione ha una precisione fiamminga. Lorenzo Lotto descrive con minuzia tutti gli oggetti di uso quotidiano di una giovane ragazza del suo tempo: il leggio, la candela, un calamaio, la clessidra e persino la cuffia da notte.
L’angelo brandisce un giglio e dell’aura rarefatta, che di solito circonda questi esseri celesti, c’è poco. È un bell’angelo aitante e ben messo con tanto di ombra per terra.
Il braccio destro è impegnato in un gesto che indica Dio Padre che, anche lui tutt’altro che spirituale, sembra si stia tuffando a capofitto nel mondo reale, come un giovane in piscina.
La Madonna è più che sorpresa, spaventata, quasi come il gatto che a schiena inarcata reagisce da felino qual è. Il gesto di Maria è sorprendentemente rivolto proprio verso di noi che guardiamo, come a volerci coinvolgere in questo avvenimento sorprendente.
Cerca empaticamente il nostro sostegno ed è con noi che dialoga e non con l’angelo e tantomeno si mette in pose da “Il manuale delle annunciazioni”.
Per Lorenzo Lotto l’annuncio è immaginato esattamente come potremmo pensarlo noi: qualcosa di incredibile, inaspettato, ma concreto e reale.
Come il genio di Lorenzo Lotto.
]]>San Francesco nell’Arte
Il 1 novembre è giorno di festa cristiana dedicata a “Tutti i Santi”.
I santi, in estrema sintesi, sono persone religiose che per la loro rettitudine, virtù, bontà e azione esemplare sono diventate esse stesse oggetto di venerazione.
Uno dei santi più popolari è San Francesco d’Assisi che è anche “Patrono d’Italia”.
San Francesco è simpatico anche a chi religioso non è, perché amava molto gli animali. Parlava con lupi e uccelli e li rispettava in un periodo che, molto più di oggi, li considerava meno che oggetti.
Ecologista modello scrisse il “Cantico delle creature” ringraziò il Signore per l’acqua, che considerava nostra “sorella”, la terra, il sole, per l’aria e per il cielo, tutte cose per cui ci stiamo impegnando a distruggere in ogni modo possibile e il più velocemente possibile.
Mandare a morte l’organismo che ci ospita può regalare anche al genere umano, a buon diritto, l’etichetta di “virus”.
Figlio di ricchi rinunciò a soldi e potere e predicò la povertà da povero.
Predicare la povertà da ricchi è sport in voga anche ai giorni nostri.
Inventò il presepe vivente che originò la cultura italiana del presepe tanto a cara a molti e non solo bambini.
Per tutta la vita, praticò anche un bene raro e ormai estinto in molte parti del mondo: la coerenza.
Insomma: una bella persona.
Nato nel 1182, morì nel 1226. Tutta la sua vita, un po’ come quella di Gesù, fu organizzata in episodi e ispirò artisti del calibro di Giotto, Caravaggio, Tiepolo, Tiziano ecc.. e centinaia di artisti meno famosi, di miniaturisti e copisti.
Su tutti prevale Giotto con “Le storie di San Francesco”, stupendi affreschi nella basilica superiore di Assisi dove, quadro per quadro, il pittore ci racconta le vicende significative della vita del Santo.
Noi di Pitteikon, proponiamo le nostre stampe d’arte con la serie dei quadri di Giotto.
In questa occasione particolare le stampe hanno un prezzo speciale fino al 30 dicembre, così potete considerare le stampe d’arte Pitteikon come un bel regalo per parenti e amici.
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Paul Klee è considerato un pittore astratto.
Al contrario di altri colleghi astrattisti, però, i titoli dei suoi quadri sono concreti. Non si tratta di “Composizione n.15” “Improvvisazione 28” e così via, ma di titoli come: “Raccolta delle pesche”, “La bella giardiniera”, “Bambino con giocatoli” ecc.
L’osservatore attento non può fare a meno di commentare: “Si, va beh… ma questo guazzabuglio di quadratini e scarabocchi sarebbe una bella giardiniera?”
La risposta è fornita dallo stesso Klee: “L'arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Sarebbe a dire: tu non lo vedi, ma la bella giardiniera è anche quello che ho dipinto.
Klee, dunque, parte sempre da un dato reale e concreto e poi lo dipinge, cercando di trovare altri significati, sensi diversi; potremmo dire, come va di moda oggi, rende concreto un mondo parallelo.
Accantoniamo i mondi paralleli per un po’ e guardiamo insieme uno delle migliaia di quadri che ha dipinto: “Gatto e uccello” del 1928.
Paul adoperò olio e inchiostro su garza. Lui adoperò praticamente ogni materiale possibile perché gli piaceva sperimentare ogni effetto.
Con la garza come fondo il colore acquista spessore, vibra in modo particolare. Il suo segno inconfondibile sembra uno di quei graffiti che segnano i muri delle caverne preistoriche.
Naso del gatto a parte i colori non seguono le linee di contorno, ma si muovono a loro piacimento, raccontandoci una storia.
La forma del viso del gatto ci parla di due occhioni con pupille da felino, delle orecchie a triangolo che mettiamo noi al loro posto, perché Klee le ha solo accennate.
Al centro della fronte ecco un uccello. Un segno unico nello stesso posto dove di solito gli Indù mettono il terzo occhio.
Indica semplicemente: io sono un uccello.
Sagaci commentatori hanno immediatamente interpretato il tema del quadro: il gatto pensa all’uccello perché se lo vuole mangiare.
Credo siano vittime di una bella svista e di un animo molto ... umano.
Il nasino del gatto, infatti, è un cuoricino rosso.
Il gatto, quindi, ama. Non ha nessuna intenzione di mangiarsi l’uccello perché è suo amico. Certo si vede che è un gatto furbo, ma ha due begli occhioni e le guance calde. I baffi a riposo.
Klee, in poche righe e colori, ha raccontato una bella storia possibile.
E Klee di gatti se ne intendeva, perché ne aveva tre: Nuggi, Fritzi e Bimbo.
Cerchiamo anche noi di vedere quello che non sempre è visibile. Dopotutto è il segreto della poesia.
Questa poesia a colori è conservata al Museo di Arte moderna di New York, ma se la volete ammirare a casa vostra non dovete far altro che farvi recapitare una bella stampa d’arte Pitteikon.
]]>Van Gogh, i girasoli. Cofanetto regalo Miniartprint
La serie in cofanetto e cartella regalo delle stampe Pitteikon comprendono questo capolavoro di Vincent Van Gogh.
Vincent dipinse questo quadro dei girasoli (ne dipinse altri 4) nel 1888 aspettando, trepidante, l’arrivo di Paul Gauguin.
Con lui voleva dare inizio a una nuova associazione di pittori.
Iniziò ritraendone due e finì per creare uno dei quadri più noti al mondo.
Scrisse al fratello Theo: “"Vorrei fare una decorazione per lo studio. Nient'altro che grandi girasoli”.
In questo periodo di vitalità e ottimismo, l’estate e la sua felicità si diffusero nel quadro.
L’idea era di arredare al meglio la stanza dell’amico con diverse tele, ma dipinse solo questa: una grande tela di cm 72 per 91.
Per la capacità espressiva di Van Gogh bastarono 3 colori declinati nelle varie tonalità.
Quando Gauguin vide il quadro il suo commento non poté che essere: ”completamente Vincent”.
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]]>Vincent Van Gogh - Ramo di mandorlo in fiore
Questa immagine è compresa nel cofanetto regalo Pitteikon, dedicato ai fiori di Van Gogh.
Vincent dipinse questo grande quadro di cm 72 x 93 nel 1890 a Saint Remy, per fare un regalo al suo amatissimo fratello Theo e alla moglie Johanna Bonger.
A Theo e Johanna, infatti, nacque un figlio che chiamarono Vincent Willem.
L’ispirazione venne da alcune stampe giapponesi molto diffuse in quel periodo.
Van Gogh scelse il soggetto come simbolo di vita.
Un ramo con fiori bianco perla che si stagliano su un cielo turchese.
L’opera non è del tutto rifinita perché Van Gogh era sconvolto da una delle sue crisi.
I contorni del ramo al centro non sono terminati e anche alcuni rametti sottili a sinistra, al centro e in alto a destra sono solo abbozzati.
Questo non impedì al grande pittore di regalare un capolavoro a suo fratello e famiglia. E a noi tutti, oggi, di poterlo ammirare.
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