
Mirò, una tranquilla surrealtà
Un ordinario abito grigio, giacca, cravatta, taglio di capelli impeccabile con la riga di lato. Puntuale e metodico nel lavoro si recava nel suo studio alla mattina fino a sera, lavorando ininterrottamente e con rigore.
Dal lunedì al sabato. La domenica giorno di pausa da trascorrere con la moglie e la figlia.
Chi riusciva ad accorgersi di lui poteva pensare fosse un sacrestano o un modesto ragioniere e invece si trattava di Joan Mirò i Ferrà, pittore, nato a Barcellona il 20 aprile 1893 da Miquel Miró Adzerias, orefice e orologiaio, e Dolores Ferrà di Oromi.
Schivo, di poche parole, riservato, molto gentile e affabile. Parlava di sé con modestia estrema, anche quando i suoi quadri si vendevano a milioni di euro. (il suo record 30 milioni ca di euro per un solo quadro).
Tanto per non uscire da una consolidata tradizione biografica artistica, il padre lo indirizzò a studi commerciali, ma, pur con la mitezza che gli apparteneva, Joan dimostrò che non aveva nulla a che fare con il commercio. Disegnare e dipingere era la sua vocazione.
Ci fosse un quiz in cui si vince accoppiando il carattere di una persona ai suoi quadri, con Mirò perderemmo.
Chi mai direbbe, guardando quei quadri così pieni di vita e colore, così liberi e pirotecnici, fuori da ogni regola e scuola corrispondano ad una persona così taciturna e, in fondo, triste?
A scuola d’arte ha come maestro Francesc Galì che lo esercita in un modo davvero curioso per un pittore: dipingere bendato riconoscendo gli oggetti con le mani.
Se neghi a un pittore di ritrarre le immagini del mondo esterno, non resta che dipingere le immagini interiori.
Al di là di bizzarie formative, Mirò, passo a passo, trasforma la sua pittura ispirata a Van Gogh, De Vlaminck e i fauves verso Matisse, Juan Gris e il surrealismo. Ma ancora di più: verso Mirò… verso sé stesso. Il suo stile è inconfondibile.
Da una pittura a tocchi larghi di pennello, sostanzialmente espressionista, nel 1919 passa a uno stile molto dettagliato, da miniaturista precisando anche il minimo particolare, seppur di fantasia.
Già apprezzato, iniziò la sua fama. A Hemingway piacque Mirò e comprò un suo quadro per la moglie.
Conosce e frequenta tutti i maggiori pittori, da Picasso a tutti gli altri, i poeti surrealisti come Prévert, i dadaisti come Tristan Tzara e man mano che assorbe idee, crea tele sempre più personali e distanti da qualsiasi possibile rappresentazione del reale.
Nelle sue opere compaiono animali fantastici, oggetti celesti, asterischi, virgole, esseri misti animali-uomo, una specie di nuovo alfabeto che utilizzerà per tutta la vita. Intense le sue partecipazioni a mostre, eventi, lavori teatrali. Produce anche ceramiche e sculture sempre con il suo stile inconfondibile.
In poche parole la sua è poesia, la sua è musica fatta usando la pittura. Pittura realizzata con cento materiali, collage, e tutto ciò che la fantasia gli proponeva.
Una fantasia che gli ha permesso di comporre anche poesie come questa:
“Un garofano rosso risplende
sulla sommità di un ombrello
portato da un nasello
con la coda di pappagallo
coricato sulla neve rosa”
André Breton lo considerava “il più surrealista di tutti noi” e Prévert così lo descrive: “Un innocente col sorriso sulle labbra che passeggia nel giardino dei suoi sogni”
La chiave di lettura per capire le sue opere, se mai tali opere vanno “capite”, la dà lui stesso:
“Più del quadro in sé conta quel che esso emana e diffonde. Se viene distrutto non importa. L'arte può anche morire, ma quel che conta è che abbia sparso semi sulla terra”
Ecco cosa può nascondersi nell’animo di un uomo assolutamente ordinario qual era Juan Miro i Ferrà.
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