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Pellizza. Il quadro di una vita: invincibile.

Pellizza. Il quadro di una vita: invincibile.

 Raccontare la storia del quadro “il quarto stato” di Pellizza da Volpedo è come riferire della vita di una persona.

Anche dopo il suicidio dell’ancora giovane Giuseppe Pellizza, la sua “vita” (quella del quadro) ha reso giustizia, non senza fatica, della sensibilità e dell’animo del pittore. Un grande pittore.

quarto stato

 

Gli “Ambasciatori della fame”

Per arrivare al risultato finale che tutti conosciamo, un quadro bellissimo, enorme, di m 2.93 per 5.53, ci vollero dieci anni: dal 1891 al 1901.

Nel 1891 Giuseppe assiste a una manifestazione di protesta di un gruppo di operai proprio a Volpedo e ne rimane impressionato.

Nel suo diario annota che la questione sociale si impone e, come altri ci si dedicano e studiano come risolverla, l’arte non deve restare estranea ai movimenti che si danno da fare “verso una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore a petto delle condizioni presenti”.

Inizia dunque a creare e studiare bozzetti e prove per un quadro che immagina intitolato “Ambasciatori della fame”. La struttura compositiva è già, in embrione, quella del quadro che conosciamo con tre figure in avanti rispetto al gruppo di sfondo.

 

Già dipinto dentro di me

Potremmo dire che è un “work in progress”: Pellizza disegna, pensa, scrive e dipinge. Realizza un quadro “Piazza Malaspina a Volpedo”, che chiarisce l’ambiente a cui sta pensando per il risultato finale.

Dentro di lui il quadro è già fatto, ma ancora non gli appare; sa però con certezza cosa non va e continua a provare, finché i suoi occhi vedranno ciò che la sua sensibilità ha già depositato in lui.

Un processo di dis-velamento.

Pellizza scrive e descrive la scena:

“Gli ambasciatori sono due si avanzon seri sulla piazzetta verso il palazzo del signore… Son uomini, donne, vecchi, bambini: affamati tutti che vengono a reclamare ciò che di diritto - sereni e calmi, del resto, come chi sa di domandare ne più ne meno di quel che gli spetta - essi hanno sofferto assai, è giunta l'ora del riscatto, così pensano e non vogliono ottenere colla forza, ma colla ragione - qualcuno potrà alzare il pugno in atto di minaccia ma la folla non è, con lui, essa fida nei suoi ambasciatori - gli uomini intelligenti [...]”

 

La Fiumana

Siamo nel 1895. Il titolo cambia. Ora Giuseppe pensa che dovrebbe essere “La fiumana”.  Il complesso compositivo cambia.

Le persone non sono più compresse dall’ambiente, ma lo compongono. Non più muri di mattoni, ma un muro di uomini, un fiume appunto. Inarrestabile.

Anche i colori seguono il nuovo intento: sfondi dal blu al verde e contrasti sui toni gialli e rossi. Si aggiunge una figura femminile (la modella è sua moglie) un passo indietro, non per acquiescenza, ma come allegoria dell’umanità, perché ha un bambino tra le braccia.

Oltre a disegni realizza fotografie con i suoi modelli in posa.

Realizza il quadro definitivo “La fiumana” e scrive: “…la fiumana dell'Umanità assetata di giustizia - di quella giustizia conculcata fin qui e che ora miraggio lontano splende”.

Ma il risultato, ancora, non lo convince.

 

Cammino dei lavoratori”

Intanto a Milano il generale Bava Beccaris si occupava di passare alla storia con i suoi cannoni, adoperati ad alzo zero sulla folla inerme di operai in una insensata quanto sanguinosa repressione.

L’obiettivo del pittore è di rendere la fiumana più tumultuosa e farla avanzare a cuneo verso lo spettatore. Delinea meglio le prime file tanto che si potranno identificare con precisione le identità in posa.

Possiamo riconoscere oltre alla moglie Teresa Bidone, la figura centrale come Giovanni Zani detto Gioanon, alla sinistra (per chi guarda) il falegname Giacomo Bidone e altri compaesani e parenti del pittore lungo tutta la prima fila.

Il cielo è più movimentato nuvole e sprazzi impazienti di sereno. Lo stesso Pellizza descrive così la sua tecnica:

“nel risultato la fattura non dovrebbe essere né tutta a puntini, né tutta a lineette, né tutta ad impasto; e nemmeno o tutta liscia, o tutta scabrosa; ma varie come sono varie le apparenze dagli oggetti nella natura, e raggiunger con le forme e con i colori "un'armonia parlante" (questo sarebbe il supremo scopo), un'idea alla mente od un sentimento al cuore»

Ci siamo quasi. Il titolo è ora: “Cammino dei lavoratori”

 

Arte e “Quarto stato”

La stesura di questo progetto ideale, che finalmente rispecchia il quadro che la sua mente e il suo animo già conoscevano, richiede tre anni.

Quando, finalmente Giuseppe posa il pennello cambia lo scopo del quadro stesso: non è più una tempesta socio-umanitaria, ma una rivendicazione socio-proletaria. Quelli che camminano verso di noi sono “uomini del lavoro” che fanno della lotta per diritti umanitari una lotta di classe.

Non c’è violenza, ma un incedere fermo, pacato e inarrestabile. Nel quadro di Pellizza il “Quarto stato”, titolo definitivo che passerà alla storia, il procedere è semplicemente invincibile.

 

Il quadro e il principe Amedeo

Il quadro fu esposto per la prima volta alla “Quadriennale di Torino” nel 1902 e, malgrado in giuria ci fosse un caro amico di Giuseppe, lo scultore Giuseppe Bistolfi, l’opera non ebbe alcun riconoscimento. La giuria premiò un bozzetto per “Monumento al principe Amedeo”.

Oltre alla cocente delusione che Pellizza visse come un vero tradimento, nessuno acquistò il quadro peggiorando, così, le finanze del pittore che aveva impegnato così tanto tempo e risorse.

 

Il quadro diventa simbolo

Il critico d’arte Giovanni Cena seppe cogliere il valore dell’opera scrivendo: «è una cosa che resterà e che non ha paura del tempo, perché il tempo le gioverà».

Pellizza da Volpedo finì precocemente il suo di tempo, non riuscendo a sopravvivere alla morte dell’amatissima moglie.

E siccome “il sistema” si guardava bene dall’esporre l’opera proprio per la sua enorme capacità di comunicazione, il successo iniziò ad arrivare da stampe e riproduzioni dell’opera pubblicate su riviste e giornali.

Divenne simbolo per i socialisti anche attraverso la loro rivista “Avanti!”. Più i comitati espositivi, in ossequio al potere, si rifiutavano di esporlo, più l’immagine dell’opera si diffondeva tra la gente.

 

Mussolini vs Pellizza da Volpedo

Nel 1921 il quadro entrò a far parte del patrimonio della Galleria di Arte Moderna di Milano e fu esposto al Castello Sforzesco.

Uno dei grandi meriti di Mussolini fu quello di prendere il quadro e nasconderlo in un deposito, affinché nessuno lo vedesse. Guarda caso al fascismo il messaggio di Pellizza non piaceva.

Prendere il quadro e collocarlo nella sala di giunta di Palazzo Marino fu una delle prime azioni del primo sindaco di Milano dopo la liberazione, Antonio Greppi. Il «monumento più alto che il movimento operaio abbia mai potuto vantare in Italia».

 

Da qui all’eternità

Restò lì fino al 1980 e poi collocato in una sala interamente dedicata al capolavoro presso la Galleria di Arte Moderna di Milano. Dal 2010 si trova nel Museo del Novecento, prima opera esposta come riconoscimento del suo valore artistico.

Mi piacerebbe molto che, per un qualche miracolo astrale, Giuseppe Pellizza da Volpedo potesse vedere tutto quanto accaduto dopo di lui e constatare che la sua opera si è dimostrata come l’aveva immaginata: invincibile.

 

 

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